Loading...

Mutamento di destinazione d’uso ed attività notarile*

Ci si limiterà qui ad esporre brevi riflessioni sulla natura e sulle conseguenze del mutamento di destinazione d’uso ai fini urbanistici e, conseguentemente, delle correlative formalità da osservarsi, a pena di nullità, negli atti notarili.

 

In particolare, costituisce mutamento di destinazione d’uso7 «ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale» (art. 23-ter, comma 1 D.P.R. 380/2001).

 

È quindi sufficiente una qualsiasi forma di utilizzo (anche de facto) dell’immobile, diversa da quella originaria, che comporti la catalogazione dell’immobile in una categoria funzionale diversa da quella di appartenenza.

 

Quali sono le categorie funzionali?

 

La legge (art. 23-ter, comma 1, lettere da a) a d)) elenca le seguenti: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.

 

Al fine di capire quale sia la categoria funzionale originaria, è necessario riferirsi alla documentazione di cui all’art. 9-bis, comma 1-bis D.P.R. 380/2001: cioè la documentazione relativa allo stato legittimo degli immobili.

«Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali» (art. 9-bis, comma 1-bis, primo e secondo periodo D.P.R. 380/2001).

 

Ai fini dell’attività notarile, rilevano gli artt. 40 L. 47/1985 e 46 D.P.R. 380/2001, che regolano l’inserimento delle c.d. menzioni urbanistiche negli atti «aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti» (art. 40 L. 47/1985) ovvero negli atti «aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 19851» (art. 46 D.P.R. 380/2001).

 

È previsto, rispettivamente, che debbano risultare «gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell'articolo 31» (art. 40 L. 47/1985) ovvero «gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria» (art. 46 D.P.R. 380/2001).

 

Come noto, e prima della Cass. SU 8230/2019, la commerciabilità di un immobile abusivo dipende dalla tipologia di abuso.

Nel caso di abuso maggiore (assenza del o totale difformità dal titolo abilitativo maggiore, quale la licenza edilizia, la concessione edilizia ovvero il permesso di costruire o, infine, la D.I.A. o la S.C.I.A. in alternativa al permesso di costruire2), si è ritenuto non sufficiente menzionare il titolo o i titoli abilitativi che hanno giustificato la costruzione del fabbricato, ai fini del rispetto della normativa sulle menzioni.

Nel caso di abuso diverso da quello maggiore, si è ritenuto comunque sufficiente menzionare il detto titolo o i detti titoli abilitativi giustificativi della costruzione del fabbricato, salva l’esigenza (professionale e – direi – disciplinare3) di informare le parti delle conseguenze della alienazione (sul lato delle garanzie) e dell’acquisto (sul lato delle responsabilità amministrative) di fabbricati abusivi.

Dopo la nota sentenza delle Sezioni unite (Cass. SU 8230/2019, su citata), discrimine appare essere quello della riferibilità o meno del titolo edilizio maggiore al fabbricato. Ove l’abuso abbia comportato la “disconnessione” tra titolo edilizio e fabbricato, nel senso che il primo non possa più considerarsi riferibile al secondo, viene meno la commerciabilità dell’immobile.

 

Al netto di una riflessione su questa sentenza, qui si vuole solo capire come trattare il mutamento di destinazione d’uso ai fini dell’attività notarile.

 

Per sciogliere questo dubbio, sembra prioritario partire dall’analisi del mutamento di destinazione d’uso, al fine di comprendere se lo stesso rientri o meno nel concetto di intervento comportante un c.d. abuso maggiore.

 

Secondo chi scrive, il mutamento di destinazione d’uso (a prescindere dalle opere, come indicato dalla definizione di cui al superiore art. 23-ter D.P.R. 380/2001) comporta la trasformazione dell’immobile originariamente assentito in uno diverso.

La destinazione d’uso, infatti, qualifica (e giustifica) l’intervento edilizio, che si pone nello scenario urbanistico in cui viene calato, con delle caratteristiche proprie che gli derivano dall’appartenere ad una data categoria urbanistica (tra quelle sopra ricordate).

Aver assentito la costruzione di un immobile ad uso residenziale non può avere il medesimo significato di averne assentita una di un immobile ad uso commerciale o produttivo e direzionale.

Al di là, infatti, del diverso peso sul carico urbanistico4, che può diminuire8 o aumentare in relazione ad un mutamento di destinazione d’uso, tale citato mutamento comporta comunque lo stravolgimento dell’originaria composizione urbanistica dell’area in cui è l’immobile trasformato.

 

E che una tale premessa possa trovare un fondo di argomentabilità lo si deduce anche dal (ancor più noto) punto n. 39 Sezione II Tabella A allegata al D. LGS. 222/2016, che indica quale sia il regime amministrativo del «mutamento di destinazione d’uso avente rilevanza urbanistica». In particolare, si cita l’autorizzazione/silenzio assenso ai sensi dell’art. 20 D.P.R. 380/2001, riferendosi quindi al permesso di costruire.

 

Una piccola riflessione, prima di arrivare alle conclusioni, ci è imposta dal fatto che nel testo unico dell’edilizia sono indicate tipologie di interventi edilizi che prevedono la possibilità del mutamento di destinazione d’uso e che, a loro volta, risultano legittimate senza la necessità di chiedere il permesso di costruire (manutenzione straordinaria e restauro e risanamento conservativo, che peraltro rappresentano categorie che sussistono in quanto siano compiute delle opere5).

In particolare, l’espressa possibilità del mutamento di destinazione d’uso a mezzo un intervento di restauro e risanamento conservativo ci deriva dalla modifica compiuta dall’art. 65-bis, comma 1 D.L. 50/2017 all’art. 3, comma 1, lettera c) D.P.R. 380/2001. Si noti, quindi, che questa modifica normativa è posteriore al citato D. LGS. 222/2016.

 

Tuttavia, l’incipit del detto articolo è il seguente: «gli interventi edilizi rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d’uso purché con tali elementi compatibili […]».

Si evince che il Legislatore subordina il mutamento di destinazione d’uso al fatto che le opere siano compatibili con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo edilizio.

Tuttavia, e a ben vedere, sembra difficile asserire che il mutamento (ai sensi dell’art. 23-ter D.P.R. 380/2001) delle destinazioni d’uso possa essere compatibile (quanto meno) con gli elementi tipologici dell’immobile.

«Elementi tipologici di un edificio sono quei caratteri architettonici e funzionali che ne consentono la qualificazione in base alle tipologie edilizie (es. costruzione rurale, capannone industriale, edificio scolastico, edificio residenziale unifamiliare o plurifamiliare, edificio residenziale signorile, civile, popolare etc.)»6.

Sembra quindi potersi affermare che il “mutamento delle destinazioni d’uso” indicato nel citato art. 3, comma 1, lettera c) D.P.R. 380/2001 non sia lo stesso “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” di cui è in parola, e che viene trattato nell’art. 23-ter D.P.R. 380/2001. Si tratterà, allora, di un mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente non rilevante e, quindi, all’interno della stessa categoria funzionale (es., passaggio da villino a villa).

 

Si dovrebbe diversamente sostenere che la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera c) D.P.R. 380/2001 sia contraddittoria e, quindi, non applicabile (in parte qua) per una mancanza di significato.

 

Oltre tutto, esigenze di prudenza invitano, nel caso di dubbio, a preferire una interpretazione forse meno pratica ma più sicura ai fini della validità della circolazione immobiliare (tanto preziosa quanto esigente in termini di controlli e formalità).

 

Si noti, poi, che l’art. 10, comma 2 D.P.R. 380/2001, fin dalla sua introduzione (e quindi, in un momento anteriore al D. LGS. 222/2016), si esprimeva così: «Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività». È stato solo modificato (sempre anteriormente al detto D. LGS. 222/2016) il riferimento alla D.I.A. con l’attuale riferimento alla S.C.I.A. Potrebbe pertanto sorgere il dubbio che vi sia un difetto di coordinamento e che, dopo la previsione del punto n. 39 Sezione II Tabella A D. LGS. 222/2016, non sia possibile richiedere una S.C.I.A. ordinaria per un intervento che per il Legislatore è considerato tal importante da chiedere il permesso di costruire, con la conseguenza che sarebbe – al più – possibile richiedere una S.C.I.A. in alternativa al permesso di costruire (nell’ottica della facoltà prevista dall’art. 23, comma 1, ultimo periodo D.P.R. 380/2001).

 

Eguale riflessione va sostenuta anche in relazione a quel «mutamenti della destinazione d’uso» di cui all’art. 10, comma 1, lettera c) D.P.R. 380/2001, che disciplina il caso in cui un intervento di ristrutturazione edilizia sia soggetto a permesso di costruire (ovvero, S.C.I.A. in alternativa al permesso di costruire). Questa formulazione è nata prima che venisse previsto, con la citata modifica del D. LGS. 222/2016, la riconduzione della modifica (rilevante) della destinazione d’uso al genus delle fattispecie assentibili a mezzo permesso di costruire.

 

Per chiudere, quindi, si ritiene che il mutamento di destinazione d’uso (urbanisticamente rilevante) comporti sempre una trasformazione dell’originario immobile.

Del resto, l’art. 3, comma 1, lettera e), alinea D.P.R. 380/2001 definisce così gli «”interventi di nuova costruzione”»: «quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti […]». Cioè, la disposizione definisce gli interventi di nuova costruzione (soggetti al permesso di costruire, ex art. 10, comma 1, lettera a) D.P.R. 380/2001) in via residuale. Pertanto, tutto ciò che non rientra nelle lettere precedenti è da intendersi come nuova costruzione. Solo in via esemplificativa (chiaramente, non tassativa), poi, sono elencate fattispecie che «[…][S]ono comunque da considerarsi […]» interventi di nuova costruzione (sono gli interventi di cui alle lettere e.1), e.2), e.3), e.4), e.5), e.6) ed e.7).

 

A livello operativo, ciò comporta, se non assentito, la realizzazione di un abuso maggiore ovvero la disconnessione tra titolo edilizio e immobile (nelle due rispettive tesi della necessità di discriminare tra abuso maggiore e abuso non maggiore ovvero della necessità di distinguere tra titolo riferibile e titolo non riferibile all’immobile), con la conseguenza che non potrà essere validamente stipulato l’atto notarile (tra quelli indicati negli artt. 40 L. 47/1985 e 46 D.P.R. 380/2001) in mancanza9 della menzione del titolo che abbia legittimato tale mutamento di destinazione d’uso.

 

Non rileva, nel ragionamento de quo (ma, anzi, se possibile, lo conferma, data la necessità della contestualizzazione storica della fattispecie), una recente ordinanza della Cassazione10. La vicenda riguardava la possibilità di esecuzione forzata in forma specifica (art. 2932 c.c.) di un preliminare di vendita di un immobile oggetto di un irregolare mutamento di destinazione d’uso, poi però (in corso di causa) sanato con una SCIA in sanatoria.

La Corte ha avuto modo di affermare che tale abuso consista in una «mera irregolarità urbanistica» e che «Ne consegue che l'irregolarità urbanistica dell'immobile lamentata dai ricorrenti non rileverebbe neanche ai fini della nullità del contratto definitivo ed infatti il giudice ha pronunciato sentenza ex art. 2932 c.c.».

In effetti, l’affermazione della Suprema – come anticipato – è perfettamente condivisibile, posto che la vicenda si riferiva ad un abuso commesso in un’epoca anteriore al D. LGS. 222/2016, nella quale vigeva il regime della SCIA (v. infatti l’art. 10, comma 2 D.P.R. 380/2001, sopra già citato).

Infatti, si trattava di un abuso commesso – probabilmente – sin dal 2003 e, comunque, oggetto di una richiesta di SCIA in sanatoria del 2011 (senza contare poi il fatto che, per questioni processuali, neanche sembra ipotizzabile che la Corte potesse intervenire in merito ad un’eventuale illegittimità del provvedimento in sanatoria per tale abuso edilizio, trattandosi di tutt’altro nella relativa fattispecie).

 

Per quanto riguarda il titolo edilizio necessario per assentire tale mutamento di destinazione d’uso (a prescindere dall’esecuzione di opere), questo sarà:

- nel silenzio della legislazione regionale, il permesso di costruire (cfr. il citato punto n. 39 Sezione II Tabella A D. LGS. 222/2016);

- ove la legislazione regionale si sia espressa, il titolo da questa menzionato (per es., la L.R. Puglia 48/2017, all’art. 4, comma 3, ha previsto che: «I mutamenti di destinazione d’uso rilevanti di cui al comma 1, con o senza opere, sono realizzati mediante permesso di costruire o mediante segnalazione certificata di inizio attività in alternativa al permesso di costruire, a seconda della tipologia dell’intervento edilizio al quale è connesso il mutamento della destinazione d’uso. Gli interventi che prevedono una diversa destinazione d’uso tra quelle riconducibili alla medesima categoria funzionale sono realizzati mediante segnalazione certificata di inizio attività»).

 

Ove si dovesse considerare ammissibile che la legislazione regionale preveda la S.C.I.A. ordinaria per il mutamento urbanisticamente rilevante della destinazione d’uso (lo si ripete, da una all’altra categoria funzionale), ne deriverebbe, a seconda delle interpretazioni:

- la necessità di menzionare anche la S.C.I.A. ordinaria, sebbene non previsto dalla legislazione sulle formalità urbanistiche (che, essendo disposizione sulla forma e, quindi, forse, eccezionale, non può sopportare una interpretazione analogica ma al più estensiva), al fine di evitare che la menzione del solo titolo edilizio precedente riguardi un titolo non (più) riferibile all’immobile, dopo il mutamento di destinazione d’uso;

- il venir meno della necessità di menzionare anche la S.C.I.A. ordinaria, giacché si deve ritenere che la legislazione regionale (avendo la facoltà di prevedere la sola S.C.I.A. per il mutamento d’uso urbanisticamente rilevante) abbia comportato la dequalificazione della trasformazione, che è stata ritenuta intervento meno importante rispetto a quanto individuato nella legislazione nazionale.

*Si svilupperanno qui ulteriori considerazioni dipendenti dall’analisi di due sentenze della Corte costituzionale11.

 

Dall’esame della giurisprudenza costituzionale, che si è espressa sul tema in due occasioni, appare affermabile che il mutamento di destinazione d’uso, senza opere, sia soggetto:

- se nel centro storico, inderogabilmente a permesso di costruire (o super-SCIA12);

- se al di fuori del centro storico:

- - in mancanza di previsione regionale (facoltizzata dall’art. 10, comma 2 D.P.R. 380/2001), a permesso di costruire (o super-SCIA13)

- - in presenza di una previsione regionale (facoltizzata come detto sopra), anche a SCIA ordinaria.

 

In particolare, in riferimento all’ultimo punto (mutamento di destinazione d’uso senza opere al di fuori del centro storico), si legga una parte del punto 17.3 del «Considerato in diritto» di C. cost. 2/2021: «[…] l’art. 10, comma 2, t.u. edilizia consente alle Regioni di stabilire «con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività»; e ciò fermo il vincolo, stabilito dall’art. 10, comma 1, t.u. edilizia, della necessità del permesso (tra l’altro) per i mutamenti di destinazione d’uso nei centri storici (permesso eventualmente sostituibile con la “super SCIA”, ex art. 23, comma 01, lettera a, dello stesso testo unico). La Regione ha fatto uso di tale facoltà. La norma regionale impugnata, dopo aver richiesto il permesso o la “super SCIA” per gli interventi di recupero dei sottotetti da cui possa originare il mutamento di destinazione d’uso per immobili siti nei centri storici, ha stabilito che per gli immobili esterni ai centri storici è sufficiente la SCIA “ordinaria”. Il che, in assenza di alterazioni dell’edificio originario tali da costituire interventi di ristrutturazione “pesante”, non appare in contrasto con alcun principio fondamentale stabilito dal t.u. edilizia».

 

Aggiornato il 5 luglio 2021

 

 

[1] «Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù».

 

[2] Si noti il rinvio che fa l’art. 31, comma 9-bis D.P.R. 380/2001.

 

[3] Art. 42 dei vigenti Principi di deontologia.

 

[4] Per una definizione del quale, v. l’Allegato A all’Intesa 20 ottobre 2016, in GU 268/2016, contenente il Quadro delle definizioni uniformi dello schema di regolamento edilizio tipo, di cui all’art. 4, comma 1-sexies D.P.R. 380/2001.

«Fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d’uso. Costituiscono variazione del carico urbanistico l’aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all’attuazione di interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d’uso».

 

[5] Pertanto, rimarrebbe fermo il ragionamento sulla necessità del permesso di costruire per i mutamenti di destinazione d’uso senza opere.

 

[6] Cass. pen. 35390/2010.

 

[7] «Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali» (art. 23-ter, comma 1 D.P.R. 380/2001).

 

[8] Solo come input per una successiva eventuale riflessione, v. l’art. 3, comma 1, lettera b) D.P.R. 380/2001 che, nella sua attuale formulazione, qualifica interventi di manutenzione straordinaria (con tutte le conseguenze in tema di legittimazione dell’intervento) quelli che «non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d'uso implicanti incremento del carico urbanistico». La quale norma, se letta a contrario, sembrerebbe dire che tali interventi possono comportare mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso non implicanti incremento del carico urbanistico.

Se così fosse, per interventi rientranti in questa categoria si dovrebbero accogliere le conclusioni che sono state svolte sulle menzioni da inserire nel caso la legislazione regionale abbia previsto la S.C.I.A. ordinaria per i mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso (ultimo paragrafo del corpo).

 

[9] Salvo aderire alla tesi esposta nella nota 8, nel caso di mutamento di destinazione d’uso non implicante incremento del carico urbanistico, assentito mediante titolo collegato alla manutenzione straordinaria (es., una S.C.I.A. ordinaria).

 

[10] Cass. 6191/2021.

 

[11] C. cost. 2/2021 e 124/2021.

 

[12] Tuttavia, dalle sentenze citate nella nota che precede non è chiaro se la facoltà della super-SCIA sia consentita ex lege o solo in presenza di una specifica previsione regionale.

Il dubbio viene dal fatto che:

- è vero che l’art. 10, comma 1, lettera c) D.P.R. 380/2001 prevede la necessità del permesso di costruire per gli interventi di ristrutturazione edilizia «che portino ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui […], limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso […]»;

- è altresì vero che l’art. 23, comma 01, lettera a) D.P.R. 380/2001, consente che siano realizzati mediante super-SCIA gli interventi di cui all’art. 10, comma 1, lettera c) D.P.R. cit.;

- tuttavia, manca una previsione espressa che consenta la super-SCIA anche per i mutamenti, senza opere, di destinazione d’uso di immobili compresi nelle zone omogenee A.

 

[13] V. quanto sopra indicato.