Loading...

L’uso esclusivo di una porzione immobiliare – Cass. SU 28972/2020

INTRODUZIONE ALLA SENTENZA

Nei trasferimenti immobiliari condominiali capita – capitava1 – di imbattersi nell’attribuzione di un «uso esclusivo», a favore di chi acquista una porzione di fabbricato, relativamente ad una (o più) diversa porzione, che rimane in comproprietà condominiale ma, della quale, appunto, gode, in modo esclusivo, il solo acquirente.

 

Il più classico (e velenoso) degli esempi può essere quello del trasferimento della proprietà di un appartamento, in condominio, con l’«uso esclusivo» di un posto auto (di proprietà condominiale).

 

In questi casi, come in quelli dell’«uso esclusivo» dell’area di corte dinanzi all’appartamento al piano terra, ovvero in altri simili, lo sforzo dell’operatore pratico (e naturalmente di quello teorico) sta principalmente nel capire – con una probabilità almeno vicina al cento percento – quale situazione giuridica venga attribuita con la formula «uso esclusivo».

 

Nella sentenza che si sta esaminando, le Sezioni unite arrivano ad una conclusione – che appare opportuno riservare alle righe che seguono – che, ad avviso di chi scrive, sembra perfettamente evincibile dal testo della legge (in particolare, l’art. 1102, comma 1 c.c.), sebbene forse poco propensa a sfruttare tutti gli spazi che si potrebbero ritenere concessi2 da una disposizione “più a monte”, quale l’art. 1100 c.c. che, come noto, dispone ma non impone, perché le norme seguenti si applicano sì, ma solo «se il titolo o la  legge non dispone diversamente».

 

La vicenda che ha occupato la Suprema corte risale agli anni ’80.

Tre sorelle erano comproprietarie di un fabbricato composto da unità immobiliari ad uso commerciale (al piano terra) e unità immobiliari ad uso residenziale (al primo piano), oltre alle parti comuni dell’edificio (in particolare, ma non solo, un’area antistante ai locali ad uso commerciale, al piano terra).

Sciolta che fu la comunione mediante divisione, con l’assegnazione in proprietà esclusiva delle unità immobiliari, nasceva il condominio (con l’applicazione dell’art. 1117 c.c., vigente ratione temporis3). In questa divisione, ad una delle comproprietarie veniva assegnata la proprietà di un appartamento al primo piano e di un negozio al piano terra, con l’«uso esclusivo» della porzione di corte4 antistante al negozio medesimo.

Tali porzioni di fabbricato venivano poi alienate dall’originaria condividente a terzi aventi causa. Questi ultimi venivano, in seguito, convenuti in giudizio dai nuovi proprietari dei restanti cespiti del condominio, nel frattempo divenuti acquirenti degli stessi, affinché fosse sentito dichiararsi l’illiceità dell’uso esclusivo della detta porzione di corte, antistante il negozio. I convenuti opponevano che l’uso esclusivo spettasse loro in forza del citato titolo di acquisto, o per usucapione di servitù ovvero perché titolari del diritto di uso ex art. 1021 c.c.

 

La domanda veniva quindi rigettata in primo ed in secondo grado. La Corte di appello, in particolare, si esprimeva sia nel senso della possibile esclusione dagli enti condominiali della proprietà di tali porzioni di corte (che quindi dovevano considerarsi in titolarità esclusiva, per la natura pertinenziale ai negozi cui tali porzioni servivano), sia, nel caso non si fosse accolta la prima opinione, nel senso della legittimità, comunque, dell’«uso esclusivo», da valere come lecita pattuizione (perché disposta all’unanimità in sede di costituzione del condominio) peraltro ammessa dall’art. 1122 c.c. (ma nella sua formulazione vigente dopo la L. 220/2012).

 

Veniva quindi proposto ricorso per cassazione, cui seguiva l’assegnazione alle Sezioni unite della Corte. Nonostante sia intervenuta una rinuncia al ricorso, accettata, la Suprema corte ha comunque pronunciato nell’interesse della legge sul merito della questione (art. 363 c.p.c.5).

 

Nella sentenza, richiamando anche l’ordinanza di rimessione, si cita un orientamento giurisprudenziale, sorto nel 20176, che, prendendo posizione sul diritto di «uso esclusivo» su parti comuni dell’edificio, afferma:

- che tale diritto non è quello previsto dall’art. 1021 c.c. (il diritto di uso);

- che tale situazione giuridica rientra nella legittima conformazione del fenomeno “comproprietà”, in deroga all’art. 1102 c.c. (peraltro, come appare consentire l’art. 1100 c.c., cui pure l’art. 1139 c.c. rinvia);

- che tale situazione giuridica non comporta violazione del principio del numero chiuso dei diritti reali, dal momento che questa situazione si limita a essere una particolare modalità di essere della comunione del diritto reale (della proprietà, nei casi condominiali7);

- che tale situazione giuridica, essendo manifestazione della partecipazione al condominio, segue la proprietà della porzione di fabbricato, giacché è questa che comporta la partecipazione ai diritti ed ai pesi condominiali (art. 1118, comma 2 c.c.).

 

Dalla citazione dell’ordinanza di rimessione si invita poi a riflettere sul problema della trascrivibilità di una tale situazione giuridica. Derivando questa da una conformazione della proprietà condominiale, ne deriverebbe che essa dovrebbe trascriversi ove fossero da trascrivere le modificazioni del diritto di proprietà, facendosi però rilevare che né l’art. 2643 né l’art. 2645 c.c. consentono una tal conclusione8.

 

L’ordinanza di rimessione – come citata dalla Suprema corte nella sentenza – formula poi una affermazione, che par essere l’autentico fondamento della conclusione cui si arriva in questa materia, che forse meriterebbe un approfondimento maggiore.

Si è parlato di una «diffusa considerazione» la quale ritiene «che il godimento concreta una facoltà intrinseca del diritto di comunione».

 

Al netto della considerazione, ad avviso di chi scrive, che di diritto di comunione sarebbe preferibile non parlare, per evitare di dover affrontare la questione sulla natura giuridica della comunione9, il punto cruciale di questa affermazione sta, forse, nella mancanza di una contestualizzazione.

 

Che il godimento sia una facoltà intrinseca del diritto di proprietà (come anche del diritto di usufrutto, uso e abitazione, o di superficie, di enfiteusi, di servitù), credo sia difficile negarlo, non solo per un’esigenza normativa (art. 832 c.c.) ma anche per una di logica giuridica: il godimento della res, nei limiti del diritto di cui si è titolari, e sempre anche in quelli dell’ordinamento, è connaturato all’esercizio del diritto. La titolarità di un diritto, slegata dal suo esercizio, manifesterebbe una patologia, da sanare secondo le previsioni dell’ordinamento (in caso di imposizione illecita, ad es., secondo le norme del risarcimento del danno; in caso di imposizione lecita, ad es., secondo quelle sulla espropriazione forzata per pubblica utilità). Pertanto, non è possibile immaginare, come fisiologica, una situazione di diritto di cui non si gode, perché significherebbe immaginarne una di cui si ha fisiologicamente la titolarità ma non l’esercizio.

 

Tuttavia, se ciò è vero (e mi pare condivisibile), non è invece chiaro cosa significhi «godimento».

 

Infatti, che godere della res oggetto di proprietà condominiale significhi semplicemente poterne fare l’uso secondo la destinazione ordinaria (es., calpestare un lastrico solare; stazionare nell’androne del palazzo; parcheggiare un veicolo nel cortile, etc.) non è certo, né imposto dalla legge.

 

Si vuole dire che il «godimento» di una cosa può anche estrinsecarsi in una maniera diversa dal semplice utilizzo inteso come ordinario fisico rapporto tra la cosa e il titolare del diritto.

 

Un esempio, rispetto a quelle che sono le possibili immagini che diano luce a queste parole, può essere il seguente.

 

Si immagini il palazzo direzionale di una grossa società. Fuori del palazzo, parcheggiata in bella vista, una Bugatti Type 41. L’auto non viene, non verrà e mai sarà utilizzata nel suo senso ordinario. Essa occupa, e occuperà sempre, uno spazio definitivo, perdendo qualsiasi utilità per il suo titolare, che non sia quello di rappresentanza.

 

Avere per mostrare, non per utilizzare.

 

Ritornando al nostro discorso, appare allora possibile immaginare il significato di «godimento» della res in comune non necessariamente nel senso di utilizzo in senso fisico del bene, ma anche nel senso di dare importanza o comunque di contribuire al raggiungimento del valore della titolarità in proprietà esclusiva del medesimo.

 

Chiaramente, un condominio con tanto “verde”, anche se attribuito in «uso esclusivo» ai singoli condomini, proprietari delle unità immobiliari cui di volta in volta afferisce, non ha lo stesso pregio di un condominio cui tale “verde” manchi.

 

E quindi – cercando sempre di far camminare insieme teoria e pratica, e soprattutto quella communis opinio che non deve perdersi di vista nella ricostruzione dell’ordinamento, che serve alle persone, le quali invece non devono servire al primo – si potrebbe, forse, sostenere che l’attribuzione di un «uso esclusivo» di una porzione condominiale non sia così tranchant rispetto al «diritto di comunione» (recte, diritto reale, normalmente di proprietà, in comunione) di chi quell’«uso esclusivo» non abbia, con la conseguenza di dover escludere l’esistenza di tale situazione giuridica.

 

Comunque, sulla base della premessa per cui, tolto il godimento, inteso come rapporto fisico tra res e titolare, a tutti gli altri condomini non attributari di tale «uso esclusivo», non si possa più parlare di proprietà condominiale, ne è derivata l’esigenza di spiegare in quali termini sussista tale diritto di uso esclusivo.

 

Da qui, la sentenza, chiaramente, afferma che:

- non può parlarsi di un diritto reale atipico, perché nel nostro ordinamento sussistono e il principio del numero chiuso e quello di tipicità dei diritti reali;

- non può parlarsi di obbligazione propter rem ovvero onere reale, in quanto situazioni giuridiche che solo la legge può creare, in quanto tipiche (sempre giustificandosi proprio con i due principi sopra menzionati);

- non può parlarsi di servitù, dal momento che il peso imposta sopra un fondo non può arrivare ad annullare tutto il godimento (sempre inteso come rapporto fisico tra res e titolare) del proprietario di questo;

- il c.d. «uso esclusivo», pur previsto, potrà ricondursi: o ad un modo per significare che la parte attribuita in «uso esclusivo» debba leggersi come attribuita in proprietà, quale pertinenza (art. 818, comma 1 c.c.) della res principale; o alla costituzione di un diritto di uso, con i canoni, limiti e termini di cui all’art. 1021 c.c.; o alla costituzione di un rapporto di natura obbligatoria10.

 

 

 

 

 

BREVI RIFLESSIONI SU POSSIBILI RISVOLTI OPERATIVI

Ai fini operativi, pertanto, dovrà capirsi come comportarsi nel caso in cui la provenienza menzioni un diritto di uso esclusivo, e simili.

 

Mi sembra che la conclusione – tutto sommato – più vicina ai desiderata della parte acquirente di un simile titolo di provenienza sia la prima fra quelle ipotizzate dalla sentenza: ossia la possibilità di ricostruire l’uso esclusivo come nient’altro che l’attribuzione, in proprietà, del bene sul quale si pretenda esserci l’uso esclusivo, che viene destinato come pertinenza del bene principale11.

 

In effetti, colui il quale si sia visto attribuire – un tempo – tale “diritto di uso esclusivo”, esposta la sentenza delle Sezioni unite con la quale si disconosce tale posizione giuridica (come si pensava di aver eppure acquistato), tra le varie teoriche proposte (acquisto come pertinenza20; acquisto di un uso vitalizio; acquisto di un uso obbligatorio), potrebbe più facilmente propendere per la soluzione della pertinenza, perché gli garantirebbe la massima delle tutele possibili (acquisto del diritto di proprietà).

 

Questa conclusione muove dalla seguente spiegazione: il titolo costitutivo del condominio o – il che è lo stesso – il regolamento condominiale, di natura contrattuale12, formato contestualmente19 alla nascita del condominio, prevedendo il diritto – perpetuo o senza specificazione della durata – di usare in esclusiva una parte che sembra condominiale, in realtà attribuiscono la titolarità di tale “parte in comune” al soggetto titolare (ex art. 818, comma 1 c.c.) della proprietà del bene al quale è collegata “la parte in comune” su cui ricade l’”uso esclusivo”. Tale “parte in comune”, quindi, viene considerata pertinenza dell’altro bene, principale e, per questo motivo, in proprietà esclusiva del titolare di quest’ultima.

 

La creazione del rapporto di pertinenzialità, e quindi l’attribuzione in proprietà al soggetto titolare di quello che sembrava essere un “diritto di uso esclusivo”, deriva – come detto – dal titolo costitutivo del condominio ovvero da un regolamento condominiale contrattuale.

 

Per poter quindi analizzare i profili operativi di questa conclusione, bisogna affrontare almeno un esempio.

 

La società costruttrice del condominio, nella prima vendita, trasferisce a Tizio la piena proprietà di un appartamento al piano terra, con l’uso esclusivo del piccolo giardino condominiale trovantesi nel retro dell’appartamento.

 

In questo primo esempio, l’uso esclusivo origina dal titolo costitutivo del condominio, ossia la prima vendita (c.d. vendita pilota) dalla società a Tizio. Aderendo alla ricostruzione della attribuzione del bene, sul quale cadrebbe il “diritto di uso esclusivo”, in proprietà, con destinazione a pertinenza del bene (che sembra essere l’unico alienato: nel nostro caso l’appartamento al piano terra) principale, se ne ha che Tizio risulta proprietario e dell’appartamento e del giardino (in forza della disciplina sulle pertinenze, indicata sotto).

 

Successivamente, Tizio vende a Mevio la proprietà dell’appartamento, rinviando, nella provenienza e garanzie, al titolo di acquisto intervenuto con la società costruttrice, sopra citato.

 

La prima domanda che occorre porci è la seguente: basta il rinvio all’atto di provenienza per assicurare che Tizio abbia voluto trasferire, insieme al bene principale, anche la pertinenza?

Ad avviso di chi scrive, è troppo vago un mero riferimento al titolo (che è comune negli atti notarili) di provenienza per poterne derivare la volontà di trasferire, col bene principale, anche quello pertinenziale. Tuttavia, nel nostro ordinamento esiste una regola per cui, in assenza di volontà diversa, la volontà del trasferimento del bene principale comporta, de iure, anche l’automatico trasferimento del bene pertinenziale (art. 818, comma 1 c.c.).

Quindi, non in forza del rinvio al titolo di provenienza (che, a questi effetti, è inutile), ma in forza dell’art. 818, comma 1 c.c., Tizio avrà trasferito a Mevio, con la proprietà dell’appartamento, anche quella del giardino13.

 

La seconda domanda che va posta pertiene alla validità di un trasferimento siffatto della pertinenza (trasferimento che potremmo definire, addirittura, nascosto).

Sotto il profilo civilistico, interessano principalmente gli artt. 1418, comma 2, 1325, comma 1, numero 1), 1346 c.c.

In particolare, si potrebbe opporre che il contratto tra Tizio e Mevio sia nullo – anche parzialmente, ex art. 1419 c.c. – per indeterminatezza dell’oggetto, dal momento che la pertinenza non è stata determinata. In contrario, va affermato che la regola dell’art. 818, comma 1 c.c. presuppone proprio che l’atto o il rapporto giuridico abbia per oggetto «la cosa principale» (e basta), con la conseguenza che è la stessa legge a prevedere che non si possa parlare di indeterminatezza, in quanto l’unico oggetto (si evita di soffermarsi sulle note tesi sulla natura dell’oggetto del contratto) è la cosa principale, che – questa sì – deve essere determinata, secondo le usuali regole (per gli atti notarili, v. anche l’art. 51, comma 2, numero 6°, secondo periodo L. 89/1913).

Ulteriormente, si potrebbe opporre che il contratto tra Tizio e Mevio sia nullo – parzialmente – per mancanza dell’accordo delle parti, in relazione al trasferimento della proprietà della pertinenza. Cioè a dire le parti non hanno voluto trasferire anche la pertinenza. In realtà, è sempre la regola dell’art. 818, comma 1 c.c. a prevedere, per legge, il trasferimento della pertinenza, anche se manca la volontà delle parti21. Diverso, invece, sarebbe nel caso in cui l’atto riportasse una volontà qualsiasi relativa alla pertinenza (il che farebbe scattare la “valvola di sicurezza” di cui all’art. 818, comma 1 c.c., che prescrive: «[…] se non è diversamente disposto»).

 

Sotto il profilo della normativa speciale, almeno due22 sono le normative che bisogna prendere in esame: la normativa urbanistica e la normativa sulla conformità catastale.

Sotto il profilo della disciplina urbanistica, valgono i disposti:

- dell’art. 15, comma 7 L. 10/197724 (per gli atti soggetti a questa disciplina: quelli formati dal 30 gennaio 1977 al 16 marzo 1985);

- degli artt. 18, comma 2 L. 47/1985 e 30, comma 2 D.P.R. 380/2001;

- degli artt. 17, comma 1 L. 47/1985 e 46, comma 1 D.P.R. 380/2001.

Le disposizioni sopra segnalate prevedono, come ambito di applicazione, «atti giuridici aventi per oggetto», «atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi ad oggetto», «atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto»: pertanto, tutte si caratterizzano per limitare la loro sfera di applicabilità ad atti aventi ad/per oggetto, e non anche atti aventi per effetto, vicende relative a diritti reali immobiliari.

La riflessione merita un poco di considerazione. Potrebbe sembrare una superfetazione del Legislatore la precisazione, in alcuni testi normativi, degli atti che abbiano «per effetto» una certa vicenda giuridica, oltre a quelli che abbiano «per oggetto» la medesima (v. artt. 2341-bis, comma 1, lettera c) c.c., 2, comma 2 L. 287/1990, 70, comma 1, 72, comma 1 D. LGS. 209/2005, 33, comma 2, 36, comma 2 D. LGS. 206/2005, 4, comma 2 L. 215/2004)14.

Ad avviso di chi scrive, invece, la disposizione che preveda, quali ambito di applicazione, gli atti che abbiano «ad oggetto» o «per oggetto» una determinata vicenda giuridica, non sembra riuscire ad influenzare e non sembra regolare, quindi, anche gli atti che abbiano solo «per effetto» una determinata vicenda giuridica.

La distinzione nasce per gli atti di natura negoziale.

Per questi – volendo essere brevi – l’effetto si produce, grazie all’ordinamento, in forza di una volontà, giuridicamente rilevante, del contenuto (e degli effetti) del negozio. Pertanto, l’atto negoziale ha un proprio oggetto, che deve essere voluto dal suo autore, al fine della produzione di determinati effetti, salvi i casi in cui è la legge ad imporre o limitare l’oggetto negoziale. Tuttavia, gli effetti del negozio sono non solo quelli – principali – voluti dalle parti, ma anche tutti quegli altri che discendano per effetto della legge (intesa in senso ampio). Ciò dovrebbe essere evidente in qualsiasi ordinamento, dacché è proprio l’esistenza di regole al di fuori dei singoli consociati (appunto, un ordinamento) a rappresentare il motivo per cui quelle stesse regole governano le volontà giuridicamente tutelate dei medesimi, tra cui quelle degli atti negoziali (diritto privato). Ne è – ovvia – conferma l’art. 1374 c.c.

Senza dilungarci in pensieri forse eccessivamente teorici, basti qui dire che esistono effetti giuridici che possono derivare da un negozio, sebbene questi non siano stati l’oggetto del medesimo, ma ne siano una conseguenza prevista dalla legge. Certamente, i casi in cui gli effetti vadano oltre il voluto, o comunque presuppongano un voluto, potranno comportare vicende patologiche in tema di consenso negoziale (es., art. 1429, comma 1, numeri 1), 4) c.c., a seconda delle possibili ricostruzioni della vicenda patologica, in relazione al caso concreto).

 

Volendo quindi arrivare ad una prima conclusione relativamente all’influenza della disciplina sulle menzioni urbanistiche rispetto agli atti per i quali si applica l’art. 818, comma 1 c.c., sembrerebbe potersi affermare che queste norme non trovano applicazione in questi casi, dal momento che il negozio ha ad oggetto il bene principale, venendo la pertinenza a trasferirsi solo ex art. 818, comma 1 c.c., e quindi come effetto ma non anche oggetto dell’atto negoziale.

 

Per quanto riguarda la normativa in tema di conformità catastale, anche essa chiaramente si riferisce agli «atti pubblici e [al]le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto» certe vicende giuridiche inerenti a diritti reali immobiliari.

Pertanto, anche in questo caso, a chi scrive sembrerebbe possibile distinguere tra atti aventi ad oggetto ed atti aventi per effetto una certa vicenda, con la conseguenza che l’ambito di applicazione della normativa surrichiamata non coprirebbe anche i casi in cui una certa vicenda giuridica derivi, in realtà, non come oggetto, ma come mero effetto di un atto negoziale.

 

Prima di continuare nel ragionamento, si osservi che queste considerazioni non potrebbero essere obiettate con l’argomento che “così sarebbe troppo facile” eludere la legge.

In primo luogo, sembra che l’ermeneusi giuridica debba arrivare a ciò che dice una norma, e non a ciò che dovrebbe dire una norma affinché non sia troppo facile eluderla.

In secondo luogo, neanche è vero che con ciò si consentirebbe una facile elusione, semplicemente evitando di inserire nell’oggetto dell’atto delle pertinenze per le quali non sarebbe rispettabile la disciplina in tema di menzioni urbanistiche o di conformità catastale, per tre ragioni:

1. i casi nei quali si verifica questo marchingegno sarebbero sottoposti comunque alla nullità, per – non tanto frode alla legge, dal momento che il contratto sarebbe viziato per un modo di conformazione del medesimo e non della sua causa, quanto per – abuso del diritto, avendo abusato degli strumenti formali dell’ordinamento per conseguire un risultato che il medesimo non avrebbe consentito se le parti, che volevano trasferire precisamente anche la pertinenza, avessero ordinariamente inserito nell’oggetto del negozio la medesima;

2. si sta qui parlando di fattispecie nelle quali i beni pertinenziali non risultano oggetto di iscrizione in Catasto oppure lo sono ma per una parte maggiore (es., un’area urbana solo su una porzione della quale si esercita il “diritto di uso esclusivo”), con la conseguenza che vengono prese qui in considerazione solo vicende marginali, e non tutte le possibili ipotesi di bene principale-pertinenza nelle quali le parti potrebbero poi eludere le discipline sopra richiamate utilizzando questo marchingegno15;

3. si tratta di casi in cui è davvero incerto anche il se sia trasferito o meno l’immobile; sarebbe quindi l’alto rischio dell’effettiva acquisizione ad opporre un ostacolo all’utilizzo di questo meccanismo al fine di eludere la legge.

In terzo luogo, simili ragionamenti, che portino a distinguere gli atti aventi ad oggetto vicende traslative da atti aventi diverso oggetto ma (anche) effetti traslativi, hanno dignità di esistenza anche intorno ad altre fattispecie. Si pensi, per es., al tormentato caso della natura giuridica della scissione societaria. In questa vicenda, sarebbe possibile sostenere che le menzioni previste per i trasferimenti immobiliari non siano obbligatorie a pena di nullità, quand’anche la scissione avesse effetti traslativi del patrimonio assegnato, puntando – appunto – sull’argomento per cui l’operazione non ha, quale suo oggetto, una vicenda traslativa; essa, appunto, ne è solo effetto (o strumento di attuazione, a seconda dei punti di vista)23.

 

Se si ritengono accettabili queste premesse, e tornando all’esempio di cui sopra, se ne avrà che Mevio potrà risultare acquirente, da Tizio, non solo della proprietà dell’appartamento ma anche di quella del giardino, bene pertinenziale, in forza dell’art. 818, comma 1 c.c.

 

Si potrebbe anche fare un altro esempio: la società costruttrice, nella prima vendita dello stabile, a soggetto diverso da Tizio, si riserva il diritto di uso esclusivo sul giardino condominiale sito sempre nel retro dell’appartamento che sarà poi ceduto a Tizio. Indi, cede l’appartamento, con l’uso esclusivo del giardino, a quest’ultimo. Anche qui, aderendo alla detta ricostruzione, il rapporto pertinenziale si considera sorto al momento della vendita pilota, diventando quindi Tizio acquirente in forza dell’art. 818, comma 1 c.c., con i ragionamenti sopra fatti.

 

A livello operativo, il principale problema che deve affrontare l’operatore giuridico che non sia il giudice della vicenda è quello della incertezza sulla natura della fattispecie.

Infatti, come indicato dalle Sezioni unite, che l’attribuzione del “diritto di uso esclusivo” possa qualificarsi come attribuzione in proprietà di bene destinato a pertinenza, è solo una delle tre possibili interpretazioni.

 

Altre due sono poi le possibili ricostruzioni sulla natura di questa attribuzione di un “diritto di uso esclusivo”.

Esaminando la vicenda negoziale, si potrebbe desumere che l’acquirente abbia visto costituito a proprio favore un diritto di uso, di cui all’art. 1021 c.c. Il diritto di uso è, al più, vitalizio (artt. 1026, 979, comma 1 c.c.); se costituito a favore di soggetto non persona fisica, è necessariamente a tempo determinato per massimi trent’anni (artt. 1026, 979, comma 2 c.c.); non può essere ceduto (art. 1024 c.c.), salvo aderire alla tesi16 che considera questo divieto derogabile col consenso, anche preventivo, del proprietario del bene.

Peraltro, qui (e nel successivo possibile modo ricostruttivo) la Suprema corte ritiene possibile giungere al risultato interpretativo del diritto di uso anche mediante gli strumenti applicabili in caso di nullità del contratto, citando l’art. 1419, comma 1 c.c. Cioè a dire nel caso del rapporto di pertinenzialità, alla conclusione si giunge mediante l’interpretazione delle formule usate (in maniera evidentemente non tecnica), che devono portare a vedere l’attribuzione della proprietà del bene con destinazione pertinenziale; invece, in questo (e nel successivo caso), alla conclusione del diritto di uso ex art. 1021 c.c. si può (ma non deve, in quanto la Cassazione ritiene eventuale l’applicazione dell’art. 1419, comma 1 c.c.) giungere mediante dichiarazione di nullità, parziale, della clausola che aveva previsto l’uso esclusivo perpetuo, riconducendo il tutto all’uso ex art. 1021 c.c.

Se si ricostruisce in questa maniera la vicenda, ne deriva questo.

 

Ponendo come base di partenza il nostro primo esempio, Tizio avrà acquistato un diritto di uso vitalizio, ex art. 1021 c.c. Mancando un’autorizzazione alla cessione dello stesso, quand’anche si segua la tesi della derogabilità dell’art. 1024 c.c., la conseguenza sarà che il diritto non sarà trasferibile. L’eventuale attribuzione della detenzione de facto del bene al successivo acquirente (Mevio) si tradurrà in un comportamento materiale regolato: quanto ai rapporti tra Tizio e suo dante causa (costituente del diritto d’uso), dagli artt. 1026 e 1015 c.c., trattandosi di abuso; quanto ai rapporti tra Tizio e suo avente causa (Mevio), come concessione della detenzione di una cosa della quale (ai fini della concessione in uso) non si ha la disponibilità, con diritto alla restituzione (esercitando un’azione reale a tutela del diritto reale di godimento, ex art. 2653, comma 1, numero 1) c.c. o, eventualmente, del solo possesso, ex art. 1170, comma 3 c.c.).

Inoltre, dato che l’uso – quand’anche fosse prevista la possibilità di cessione in capo al terzo – non può comunque durare oltre la vita dell’usuario (originario), se ne ha che lo stesso si estingue al momento della morte di Tizio.

 

Ultima possibile ricostruzione, che passi per la conversione ex art. 1424 c.c., è quella della riconducibilità ad una concessione di un uso esclusivo di natura obbligatoria, in perpetuo inter partes.

Prima di esaminare le conseguenze della scelta, si consenta di esprimere un dubbio in merito alla possibilità che si parli di uso in perpetuo sic et simpliciter.

Ad avviso di chi scrive, sebbene risulti inapplicabile l’art. 1869 c.c. (per la considerazione che il diritto di uso non è equiparabile ad una «annua prestazione», che richiama invece le prestazioni periodiche, anche di servizi), pare immanente al sistema una certa intolleranza nei confronti dei rapporti perpetui (e lo dice la stessa sentenza, nel punto 6.9. delle «RAGIONI DELLA DECISIONE»), soprattutto se comportanti lo “svuotamento” delle facoltà dominicali. In buona sostanza, posto che, con questo diritto di natura obbligatoria di uso esclusivo, ai titolari dominicali della parte condominiale (ossia, tutti gli altri condomini) non spetterebbe più alcuna possibilità di godimento del bene, ne deriverebbe – per essere coerenti con quanto riportato nella sentenza a motivo principe della inammissibilità del “diritto di uso esclusivo” quale conformazione della proprietà in comunione – anche l’illiceità di una pattuizione che prevedesse tale uso esclusivo obbligatorio ed in perpetuo. E, probabilmente, si dovrebbero ricercare i limiti proprio nelle norme che disciplinino casi simili (quali, appunto, quelle su usufrutto, uso e abitazione: art. 979 c.c.).

 

Comunque, volendo sostenere l’ammissibilità di un diritto obbligatorio di uso esclusivo, ne deriverebbe, nel nostro esempio, che Tizio sia divenuto titolare di tale diritto di credito.

Qui si apre una doppia strada:

- ove tale “diritto di uso esclusivo” fosse previsto nel regolamento di condominio, accettato dai successivi acquirenti di unità in proprietà esclusiva site nel condominio, se ne avrebbe che anche questi acquirenti (dalla società costruttrice), obbligandosi al rispetto del regolamento, si obbligherebbero altresì a tale concessione di uso esclusivo (tecnicamente, o nella forma dell’accollo, o nella forma dell’espromissione – ove se ne riconosca la natura di negozio unilaterale – ovvero nella forma dell’assunzione di una nuova obbligazione, di contenuto uguale a quello della società costruttrice, con causa da definirsi a cavallo tra quella corrispettiva rispetto al trasferimento dei rispettivi beni in loro favore e quella di “migliore sistemazione della vita condominiale”17, funzionale all’ingresso degli acquirenti nella vita condominiale del fabbricato ove si trovano i beni che ciascuno ha acquistato). Conseguentemente, Tizio dovrebbe cedere18 il credito all’uso esclusivo derivantegli dal suo contratto di acquisto; Mevio risulterebbe quindi titolare del credito, da esercitarsi nei confronti di tutti gli altri aventi causa della società costruttrice, e sempre che vi sia stato, per ciascuna provenienza, il rinvio al, e l’accettazione del, regolamento di condominio;

- ove tale “diritto di uso esclusivo” fosse previsto solo nel titolo costitutivo, e non anche nel regolamento condominiale, ne deriverebbe che i successivi acquirenti delle unità in proprietà esclusiva del condominio non sarebbero legati a tale rapporto obbligatorio, salvo immaginare un rinvio, nei vari atti, agli obblighi scaturenti dal titolo costitutivo del condominio (il che, sebbene non vietato, è però anche inverosimile). Per questa ragione, Tizio stesso non potrebbe più esercitare il suo credito verso nessuno degli altri condomini, al di fuori (se ancora proprietaria) della società costruttrice e, per tale ragione, neanche potrebbe cedere il credito a Mevio. Rimarrebbe solo possibile la strada dell’usucapione (ventennale) del diritto di proprietà rispetto alla parte sulla quale si pretende di avere il “diritto di uso esclusivo”.

 

Arrivando a prime conclusioni, tra i vari, il punto maggiormente problematico mi parrebbe essere nel capire a quale interpretazione doversi affidare, tra le tre ricostruzioni possibili.

 

Ad avviso di chi scrive, in mancanza della possibilità di un negozio ricognitivo-interpretativo di tutti gli attuali condomini, una possibile soluzione, ove le parti intendano comunque affrontare la questione, e senza previamente procedere ad azioni giudiziarie od extragiudiziarie ove ammissibili, potrebbe essere quella di scegliere una delle tre tesi (anche sulla base del contesto e delle altre circostanze) e quindi prendere una posizione nell’atto, avvertendo delle conseguenze di precarietà e instabilità della vicenda.

 

Aggiornato il 13 marzo 2021.

 

 

 

 

 

NOTE

[1] La prassi più attenta, considerata la difficoltà di incasellare questo «uso esclusivo», ritiene che la sua previsione (sia come costituzione, quando si verifica la costituzione del condominio, sia come trasferimento, quando l’«uso esclusivo» “passa” insieme al diritto sulla porzione di fabbricato cui è legato tale uso), in atto – dati i dubbi che la circondano – possa comportare l’applicazione delle normali regole in tema di menzioni per il caso di trasferimenti immobiliari (es., conformità catastale; menzioni urbanistiche), con la conseguenza di non poter prevedere l’«uso esclusivo» in quanto la previsione dello stesso – proprio per il fatto di essere un «uso esclusivo» sul bene condominiale – non consentirebbe poi il rispetto, quanto meno, della conformità catastale c.d. soggettiva. Relativamente alla conformità catastale c.d. oggettiva, la sua violazione sussisterebbe nel momento in cui dovesse affermarsi:

- o che l’«uso esclusivo», inteso non come diritto a sé ma come conformazione della proprietà condominiale, debba in qualche modo risultare catastalmente (o almeno comportare variazioni rilevanti nella scheda catastale dell’unità cui l’«uso esclusivo» serve);

- ovvero che l’«uso esclusivo» sia in realtà un modo per qualificare una vera e propria pertinenza (la quale, naturalmente, va intestata al soggetto attributario, secondo il diritto insistente, quale la proprietà, e deve essere, sussistendone i presupposti, qualificata come autonoma unità immobiliare urbana, con relativa rendita).

La soluzione di compromesso (ciò cui, del resto, chiama continuamente la pratica, che chiede incessantemente di interfacciarsi con situazioni alle quali la teoria non riesce immediatamente a dare una sicura risposta) può essere quella di accontentarsi del rinvio, nelle clausole ordinarie dell’atto di trasferimento, a quanto acquisito con la provenienza (ove, magari, quell’«uso esclusivo» è stato invece citato). Con la consapevolezza, da estendere a tutte le parti, che molti sono i dubbi (e infatti questa sentenza che qui si indica lo conferma) sulla concreta acquisizione di una tale situazione giuridica (e di che tipo, poi, è oggetto di altri dubbi) in favore dell’acquirente.

 

[2] Si scrive in questo modo così dubitativo in quanto, effettivamente, non è l’art. 1100 c.c. a parlare ma è l’operatore a dovergli dare voce. Operatore che, però, deve fare i conti con i principi del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali (dei quali la sentenza in esame pure si interessa).

 

[3] Piace menzionare qui la formulazione all’epoca vigente:

«Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo:

1) il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune;

2) i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune;

3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l’acqua, per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini».

 

[4] Si noti che l’utilizzo dell’espressione (che pare riportata proprio dall’atto divisionale) «porzione di corte» fa presumere a chi scrive che tale porzione non avesse nessun identificativo catastale, potendosi peraltro anche dubitare se la corte medesima ne avesse uno (o non fosse piuttosto “trasparente” ai fini catastali, essendo stato accatastato, all’epoca, il solo insieme delle unità immobiliari urbane idonee ad essere assegnate in proprietà esclusiva).

 

[5] Interpretato come fa Cass. SU ord. 19051/2010.

 

[6] Cass. 24301/2017.

 

[7] In verità, e salvo il caso della possibilità di immaginare un condominio anche quando vi sia un unico proprietario ma diversi tra usufruttuari, usuari o abitatore (sul punto, v. Risoluzione AE 78/2020, che nega l’esistenza del condominio), un condominio può darsi quando, ad essere in comune, sia la proprietà superficiaria dello stabile (ciascun condomino avendo invece la proprietà superficiaria esclusiva delle singole unità immobiliari).

 

[8] La sentenza delle Sezioni unite specifica che il Legislatore ha consentito, solo per le sentenze, che siano trascritte quelle che comportino, fra l’altro, la «modificazione» di uno dei diritti di cui all’art. 2643 c.c.

Ad avviso di chi scrive, comunque, se si dovesse sostenere che sia possibile modificare il diritto di proprietà (del resto, è possibile modificare il diritto di usufrutto o di superficie, ad es., ex art. 2643, comma 1, numero 2) c.c., senza che sia necessario sostenere che per questi non viga il principio del numero chiuso o della tipicità dei diritti reali), si dovrebbe comunque ammettere che, anche a norme vigenti, sia possibile trascrivere tale modificazione (per il principio di completezza dei Registri immobiliari).

Quanto alle possibilità modalità dell’«uso esclusivo», ove fosse ritenuto ammissibile, come modalità di conformazione della situazione giuridica di comunione, si osservi quanto segue.

L’art. 1100 c.c. (richiamato dall’art. 1139 c.c.) consente che il «titolo» vada a regolare la comunione, in deroga alle norme – altrimenti vigenti – di cui agli articoli successivi (come l’art. 1102 c.c.).

L’«uso esclusivo» nascerebbe proprio nel titolo costitutivo del condominio (ovvero – ma giuridicamente sarebbe lo stesso – mediante atto all’unanimità, che vale, come regolamento c.d. contrattuale, a poter derogare anche il titolo).

L’art. 2643, comma 1, numero 3) c.c. già prevede la possibilità di trascrivere i contratti che «costituiscono la comunione» di uno dei diritti di cui ai numeri precedenti (normalmente, la proprietà).

Considerato che questa disposizione si limita a rendere possibile la pubblicità di una situazione legittimata dall’art. 1100 c.c., a sua volta richiamato dall’art. 1139 c.c. per il condominio, si può arrivare a sostenere che anche la costituzione del condominio (che, normalmente, sarà data dalla c.d. vendita pilota) sia trascrivibile, ai fini dell’opponibilità (art. 2644 c.c.) delle relative regole in deroga agli artt. 1101 ss. c.c., agli aventi causa (mentre l’opponibilità dell’art. 1107, comma 2 c.c., che non abbisogna di trascrizione e che viene pure richiamata dall’art. 1139 c.c., è limitata alle regole del c.d. regolamento ordinario del condominio, che disponga per l’amministrazione e il godimento, ma nei limiti di quanto previsto dal titolo e, in mancanza, dalla legge).

Naturalmente, trattandosi di «uso esclusivo», per il quale le procedure meccanizzate di trascrizione (che naturalmente non possono essere un limite alla fantasia e sviluppo del diritto) non prevedono uno specifico codice, si procederà alle opportune indicazioni nella sezione D della nota di trascrizione (o della vendita pilota ovvero, se del caso, del deposito del regolamento di condominio).

 

[9] Molto semplificando: quale nuovo diritto diverso dal diritto in titolarità esclusiva, ovvero quale situazione in cui il diritto in titolarità esclusiva, che rimane sempre tale, deve vedere la propria compressione con quello degli altri, secondo la misura di ciascuno (pars quota).

 

[10] Savo il caso, come nella sentenza, della nascita del condominio per effetto della divisione, in tutti gli altri ordinari casi di nascita del condominio, il rapporto obbligatorio:

- può nascere con la c.d. vendita pilota (al cui interno sia prevista la clausola), solo fra il venditore e il primo acquirente, e poi tra quello e il secondo acquirente, e così via, magari con l’impegno del venditore a che gli altri rispettino quanto a ciascuno “attribuito” in «uso esclusivo», ex art. 1381 c.c.;

- può nascere con l’adesione (anche nella c.d. vendita pilota e poi nelle seguenti) al regolamento (contrattuale) di condominio (ove sia prevista la relativa clausola), con la conseguenza che in ogni successivo trasferimento, che non sia a titolo universale, nella proprietà di un condomino, importerà la necessità di aderire al regolamento di condominio, pena l’inesistenza del rapporto obbligatorio nei confronti del nuovo condomino (al netto del possibile discorso sul se il semplice richiamo ad un regolamento di condominio, a volte neanche depositato presso un notaio o comunque pubblicizzato nei Registri immobiliari – pubblicità qui solo ai fini di notizia, data la natura obbligatoria del rapporto –, sia sufficiente a far assumere un’obbligazione, magari a tempo indeterminato, all’acquirente).

 

[11] Sul punto, la sentenza in commento richiama Cass. 20712/2017, la quale a sua volta richiama, fra l’altro, Cass. 6892/1992.

 

[12] Cioè regolamento approvato all’unanimità dei condomini sussistenti al tempo di formazione/modificazione dello stesso. Evidentemente, se il regolamento viene formato dall’unico proprietario del fabbricato, prima ed in previsione della successiva alienazione di una frazione dello stesso, con conseguente nascita del condominio, il regolamento stesso è allora predisposto perché venga accettato dal primo acquirente (e poi anche da tutti gli altri), combinandosi con l’atto di alienazione (la vendita pilota) in modo da formare, nel complesso, il titolo costitutivo (ai fini dell’art. 1117 c.c.).

 

[13] Sempre che la natura pertinenziale del giardino non fosse già cessata al momento del trasferimento da Tizio a Mevio. Peraltro, si ricordi che, secondo una tesi che cerca di mettere insieme le regole di cui all’art. 818 c.c. con le regole della opponibilità in materia di trascrizione (artt. 2643 ss. c.c. e, in particolare, art. 2644 c.c.), quando il bene pertinenziale abbia natura immobiliare, la cessazione della qualità di pertinenza non è opponibile ai terzi i quali abbiano acquistato diritti sulla cosa principale ed abbiano trascritto il loro acquisto anteriormente alla trascrizione dell’eventuale atto dispositivo del solo bene pertinenziale.

Non ci si soffermerà qui su ulteriori approfondimenti rispetto al tema della opponibilità della cessazione della destinazione a pertinenza (se ne potrebbe discutere per quegli atti che non sono soggetti a trascrizione, per i quali il conflitto dovrebbe risolversi in ragione dell’anteriorità di una data certa).

 

[14] A ben vedere, si tratta tutte di ipotesi nelle quali si ha l’esigenza di abbracciare tutte le ipotesi possibili relativi ad una determinata vicenda giuridica, al fine di evitare possibili elusioni di disposizioni limitative o comunque vincolistiche.

 

[15] In parole povere, si sta cercando di dire che è inverosimile che questa interpretazione che qui si sta proponendo abbia come conseguenza quella di consentire elusioni della normativa urbanistica e catastale. Nella maggior parte delle coppie bene principale-pertinenza, quest’ultima risulta autonomamente accatastata, con la conseguenza che il non inserirla come oggetto del contratto comporterebbe la sua assenza nella nota di trascrizione, e quindi nella collegata (se a mezzo M.U.I.) domanda di voltura, rimanendo intestata all’alienante (salvo, eventualmente, la trascrizione e la voltura di una sentenza in esito a domanda giudiziale di accertamento oppure – ma in questo caso seguendosi per prudenza comunque la normativa urbanistica e catastale – a mezzo negozio ricognitivo del verificarsi del meccanismo dell’art. 818, comma 1 c.c.). Ed è altamente improbabile che l’ordinaria professionalità di chi cura queste vicende sopporti simili conseguenze.

 

[16] Cass. 8507/2015.

 

[17] Sulla quale, si permetta di rinviare, magari, ad un prossimo approfondimento.

 

[18] Si può anche ritenere che questo credito, quale accessorio del bene venduto (l’appartamento), passi anche nel silenzio delle parti (art. 1477, comma 2 c.c.).

 

[19] Si differenzia il regolamento contrattuale formato contestualmente alla nascita del condominio dal regolamento contrattuale formato successivamente (anche magari dopo una sola vendita, la c.d. pilota).

Volendo partire dalla premessa per cui il “diritto di uso esclusivo” venga riqualificato come destinazione a pertinenza della “parte in comune” su cui ricada:

- nel primo caso: il regolamento prevede tale destinazione a pertinenza; il regolamento è contestuale alla formazione del condominio; quando il condominio si forma, con l’alienazione della prima frazione in proprietà esclusiva, la “parte in comune”, che è riqualificata pertinenza, segue il regime del bene principale (art. 818, comma 1 c.c.), con la conseguenza che: a) se il bene pertinenziale sia pertinenza del bene alienato, l’alienatario diventerà proprietario anche della pertinenza; b) se il bene pertinenziale non sia pertinenza del bene alienato, l’alienante rimarrà proprietario anche della pertinenza (che circolerà insieme al bene principale, se e quando sarà alienato dall’alienante);

- nel secondo caso: il regolamento prevede, ad un certo punto, il “diritto di uso esclusivo” e, quindi, la formazione di una destinazione pertinenziale: tuttavia, trattandosi di parte in comune (perché si sta ragionando nel senso che la destinazione a pertinenza avvenga dopo che sia sorto già il condominio e quindi la condominialità sulla parte in comune), la conseguenza è che si tratta di destinazione a pertinenza di un bene appartenente (anche) a soggetti diversi da quello proprietario del bene principale. Ora, anche a voler sostenere l’ammissibilità di una pertinenza, in comproprietà, di un bene principale, in proprietà esclusiva, resta che il vincolo pertinenziale sorge dopo la circolazione del bene (non potendosi quindi più applicare l’art. 818, comma 1 c.c., perché si tratterebbe di un trasferimento retroattivo al condomino, ossia di un trasferimento, con effetti ex tunc, del bene divenuto ex post pertinenza del bene principale già acquistato a suo tempo). Anche per le vicende successive del bene principale (per es., successiva alienazione da parte del condominio cui sia stata attribuita questa destinazione pertinenziale del bene comune), si dubita che possa considerarsi trasferita la proprietà esclusiva della pertinenza, appunto perché la destinazione a pertinenza è fatta anche da altri comproprietari (sempre che se ne ammetta la possibilità). Al più, si potrebbe sostenere che si trasferisca questa (sempre ammettendo e non concedendo che possa esistere de iure condito) destinazione a pertinenza effettuata, da più comproprietari della cosa pertinenziale, a favore della cosa principale acquistata dal nuovo acquirente.

Per questi motivi, si sostiene che nel caso di formazione del regolamento condominiale contrattuale successivamente alla vendita pilota, difficilmente si potrà aderire alla prima delle soluzioni proposte dalla Sezioni unite in commento.

Diverso sarebbe stato se la Corte avesse voluto intendere questa “destinazione a pertinenza” non in senso tecnico, ma in un altro, che qui si prova ad immaginare. Si sta ipotizzando, cioè, che con l’attribuzione di un “diritto di uso esclusivo” si voglia in realtà operare o riconoscere un’attribuzione traslativa in favore del relativo titolare di tale preteso diritto di uso. In particolare:

- ove l’attribuzione dell’uso esclusivo venga fatta contestualmente alla formazione del condominio:

a) se l’uso esclusivo sia attribuito in favore di chi acquista una proprietà individuale, si dovrà interpretare il tutto come ulteriore consenso traslativo relativo alla cosa sulla quale si pretende il detto uso esclusivo (con tutte le conseguenze in tema di menzioni a pena di nullità per i trasferimenti immobiliari, considerato che, in questa ricostruzione, il trasferimento della cosa sulla quale si pretende l’uso esclusivo avverrebbe in forza di volontà negoziale e non per effetto di legge);

b) se l’uso esclusivo sia attribuito in favore di chi rimane proprietario delle altre unità condominiali, si dovrà interpretare il tutto come deroga all’art. 1117 c.c.; il consenso traslativo sarà invece operante nel futuro (eventuale) atto di trasferimento dell’unità immobiliare al quale risulti “collegato” il “diritto di uso esclusivo” sulla cosa oggetto di quest’ultimo (anche in questo caso, ci sarebbero delle conseguenze derivanti dalla natura del trasferimento, che avverrebbe per effetto di volontà negoziale e non per legge);

- ove l’attribuzione dell’uso esclusivo venga fatta successivamente alla formazione del condominio:

a) si potrebbe interpretare questo regolamento (contrattuale), in parte qua, come negozio di accertamento, avente ad oggetto il rapporto giuridico nascente dal trasferimento dell’unità immobiliare cui sia collegata la cosa sulla quale si pretende tale uso esclusivo. Nel senso che, con tale regolamento, i condomini accerterebbero che il trasferimento della detta unità immobiliare comprendeva anche il trasferimento di tale cosa (con le conseguenze sulle menzioni di legge);

b) si potrebbe interpretare questo regolamento come atto: 1. di scondominializzazione del bene condominiale in bene attribuito in semplice comunione ordinaria; 2. di trasferimento della proprietà del bene in comunione a favore del soggetto titolare del “diritto di uso esclusivo” (in realtà, appunto, titolare della proprietà sulla cosa). Anche in questo caso, trattandosi di normale atto traslativo volontario, vi sarebbero le note conseguenze sulla necessità delle menzioni a pena di nullità.

 

[20] Si noti che la Suprema corte si è espressa nel senso di qualificare l’attribuzione del “diritto di uso esclusivo”, tra le varie soluzioni, come destinazione a pertinenza del bene principale.

Forse, si sarebbe potuto ragionare anche in maniera diversa.

Partendo dal comune (comune rispetto alla soluzione della pertinenza e alla soluzione che si sta qui per affermare) presupposto che, con tale attribuzione del “diritto di uso esclusivo”, le parti abbiano inteso incidere sulla presunzione ex art. 1117 c.c., si può immaginare che questa attribuzione abbia voluto in realtà significare che, per le parti che hanno formato il titolo costitutivo, la “parte in comune” sia in realtà da considerare elemento accessorio o comunque facente parte integrante della cosa alienata in proprietà esclusiva (il bene principale).

La differenza rispetto alla qualificazione del bene come pertinenziale starebbe in questo: questo riconoscimento di essere, la cosa su cui cade il “diritto di uso esclusivo”, in realtà elemento accessorio ed integrante del bene principale, comporterebbe la disapplicazione delle regole in tema di pertinenza (artt. 817 ss. c.c.) e l’applicazione di un metodo di ragionare diverso, che comporti che la circolazione del bene principale implichi, sempre e comunque, anche quella dell’elemento accessorio (perché di quello parte integrante).

Con un’ulteriore conseguenza: diversamente da quanto indicato nella nota 19, anche il regolamento condominiale contrattuale successivo alla formazione del titolo costitutivo sarebbe in grado di “attribuire” quel bene “in comune” al titolare della proprietà esclusiva del bene principale, in quanto questo accertamento della natura accessoria del bene, rispetto al bene principale, opererebbe non come una destinazione a pertinenza, ex nunc, ma come un riconoscimento, ex tunc, della qualità del bene, appunto nel senso della sua accessorietà rispetto al bene principale.

Questa, tuttavia, è una ricostruzione qui solo fumosamente abbozzata e che, comunque, non pare essere nelle corde della Cassazione.

 

[21] Si potrebbe pensare di esplorare anche la strada dell’errore essenziale (art. 1429 c.c.), ove si riesca a sostenere che l’ignoranza, della parte che richiede l’annullamento del contratto, relativa alla conseguenza giuridica di cui all’art. 818, comma 1 c.c., abbia condotto la medesima in un errore, comportante vizio rilevante del consenso, al fine degli artt. 1427 ss. c.c.

Andrebbe però anche obiettato che, di norma, la pertinenza riveste carattere secondario rispetto alla cosa principale; ciò che farebbe propendere per una diminuzione dell’essenzialità dell’errore, nella complessiva economia dell’operazione negoziale.

D’altra parte, neanche si potrebbe sostenere (per argomentare sulla presenza di un errore riconoscibile) che la parte alienante mai avrebbe immaginato che l’acquirente avrebbe, con quell’atto, acquistato la cosa secondaria in proprietà. Ciò dal momento che, divisandosi di “diritto di uso esclusivo”, le parti sono esattamente consapevoli che al futuro acquirente spetterà “un qualche diritto” o “prerogativa” intorno alla parte “condominiale” sul quale il venditore giura di avere tale uso esclusivo.

 

[22] In quanto queste, tra le varie comuni menzioni previste per il trasferimento di immobili, sono previste a pena di nullità.

Nei casi che vengono qui in esame, ove si dovesse sostenere la nullità (anche parziale) dell’atto, relativamente al trasferimento della cosa sulla quale si pretende il “diritto di uso esclusivo”, ci sarebbe da discutere – a mio avviso – relativamente all’operare dell’art. 2652, comma 1, numero 6) c.c. Molto spesso, manca nella nota (meccanizzata o meno) un riferimento catastale relativamente al bene sul quale cade il preteso “diritto di uso esclusivo”. E la – non sempre presente – presenza della specificazione (nel corpo della nota, se anteriore al procedimento meccanizzato, ovvero nel Quadro D – v. il modello allegato al D.M. 5 luglio 1986, in G.U. 170/1986 e il modello allegato al D.M. 10 marzo 1995, in G.U. 79/1995 – o nella Sezione D, tale nominata nella nota di trascrizione in formato pdf scaricabile a seguito di ispezione online) dell’attribuzione di un diritto di uso esclusivo potrebbe far propendere per l’attivazione del meccanismo di tutela (dell’affidamento) di cui al citato art. 2652, comma 1, numero 6) c.c.

Bisogna premettere che l’operare della tutela ex art. 2652, comma 1, numero 6) c.c. dovrebbe considerarsi come una premessa, in quanto bisognerebbe poi capire a quale approdo giungere: posto che si salvaguarda il terzo subacquirente, qual è la situazione giuridica da questi acquistata in forza del meccanismo sanante? A questa domanda, chi scrive è del parere che bisogna rispondere con il ragionamento della Suprema corte, ma con un’eccezione: si tratterà, infatti, o di pertinenza del bene principale o di diritto di uso (ex artt. 1021 ss. c.c.) (sulla base dell’interpretazione del titolo di provenienza) ma non di diritto di uso obbligatorio, in quanto quest’ultima è situazione che non dovrebbe essere oggetto di trascrizione (salvo voler fare applicazione analogica dell’art. 2643, comma 1, numero 8) c.c.) e, pertanto, situazione che non può giovarsi del meccanismo sanante (che, evidentemente, è invece stato previsto solo per quelle vicende pubblicitarie che avrebbero potuto essere conosciute ex art. 2643 o ex art. 2645 c.c.). Risposta questa domanda, si potrà poi continuare nel ragionamento sul passaggio del diritto in capo al subacquirente, sotto il profilo civilistico (in base a quanto si è detto sopra, nel corpo dell’articolo, sulle conseguenze di immaginare la situazione del “diritto di uso esclusivo” come destinazione atecnica del bene a pertinenza di uno principale ovvero come diritto di uso ex artt. 1021 ss. c.c.).

Ritornando alla possibilità di operare dell’art. 2652, comma 1, numero 6) c.c., ad avviso dello scrivente si deve premettere una circostanza.

Il funzionamento della tutela ex art. 2652, comma 1, numero 6) c.c. deriva dal principio di affidamento che i terzi devono poter trarre dalle risultanze dei Registri immobiliari.

Chiaramente, intanto si può parlare di affidamento, in quanto le risultanze corrispondano alle regole previste in materia di pubblicità. Cioè a dirsi, una nota di trascrizione invalida (anche in parte) non riesce a garantire l’affidamento dei consociati e, quindi, di conseguenza, neanche la possibile tutela ex art. 2652, comma 1, numero 6) c.c. (tanto ciò appare verosimile, che la dottrina, che s’è occupata dell’analisi di questa disposizione, ha in molte opinioni considerato non applicabile il rimedio di cui al capoverso all’ipotesi di invalidità della trascrizione, ma solo a quelle di invalidità dell’atto trascritto).

Nel nostro caso, quindi, ove si sta trattando – in tesi – della nullità (anche parziale) dell’atto di trasferimento, ci si dovrebbe domandare se sia almeno valida la trascrizione del medesimo, al fine dell’operare del meccanismo rimediale (i.e., la pubblicità sanante).

Va anche detto che, ai fini della tutela ex art. 2652, comma 1, numero 6) c.c., l’invalidità della nota non dovrebbe seguire ad ogni irregolarità della medesima, ma solo a quelle che portino all’applicazione dell’art. 2665 c.c., dati i gravissimi effetti collegati all’invalidità. Pertanto, anche la violazione delle regole di legge speciale (in particolare, l’art. 17, commi 1, 4, 5 L. 52/1985, per quanto sembri interessare nel caso concreto) non comporterà automaticamente l’invalidità della nota, se non nei casi di cui all’art. 2665 c.c. Diversamente, scusandomi per la ripetizione, si subordinerebbe una così importante fattispecie (la valida trascrizione nei Registri immobiliari) finanche a irregolarità minime e irrilevanti (ad es., la mancanza dell’indicazione del piano relativamente ai dati catastali dell’unità oggetto di trascrizione).

E allora, a mio avviso:

- ove la nota non contenga (nelle varie possibili forme sopra richiamate, in base al tempo di formazione della stessa) un riferimento al diritto di uso esclusivo, non sembra proprio possibile l’operare del meccanismo in riferimento a questa situazione giuridica, giacché mancherebbe la descrizione della situazione e, quindi, anche il presupposto per l’affidamento dei terzi (e, quindi, del terzo subacquirente). Difatti, l’assenza della situazione giuridica (ossia, il “diritto di uso esclusivo”), da interpretarsi alla luce della sentenza qui commentata, si scontrerebbe con l’art. 2665 c.c., giacché ci sarebbe totale «[…] incertezza […] sul rapporto giuridico a cui si riferisce l’atto […]» (art. 2665 c.c.);

- ove la nota contenga un riferimento al diritto di uso esclusivo, il tema – tutto di merito – riguarda la sufficienza delle indicazioni ivi riportate a superare nuovamente lo scoglio dell’art. 2665 c.c.:

- - tendenzialmente, questi “diritti di uso esclusivo” venivano correlati a porzioni materiali relativi a più ampie unità immobiliari, porzioni non oggetto di autonomo accatastamento. Pertanto, nei titoli ove sono attribuiti gli usi esclusivi, spesso l’oggetto dei medesimi è indicato con punti di riferimento fattuali e non documentali (es., «con l’uso esclusivo dei terrazzini, al piano, a Ovest dell’edificio»; «con l’uso esclusivo del posto auto a ridosso dell’ingresso nella corte dal fronte stradale»; «con l’uso esclusivo della cantina sottostante l’ingresso dell’appartamento», e così via).

Ci si deve quindi chiedere se tali modi di indicare gli oggetti (del diritto di proprietà, ove si voglia qualificare l’uso esclusivo quale modo di destinare a pertinenza il bene; del diritto di uso ex artt. 1021 ss. c.c., ove si scelga questa strada interpretativa), del tutto irrispettosi del comb. disp. artt. 2659, comma 1, numero 4) e 2826 c.c., sia sufficiente ad evitare che si «[…] induca incertezza […] sul bene […] a cui si riferisce l’atto […]» (art. 2665 c.c.).

Ad avviso di chi scrive, ove i beni descritti siano identificabili in maniera chiara, con confini netti, pur dovendo (come del resto anche per le unità descritte con i loro dati catastali) avere l’ausilio dei documenti catastali per eseguire il raffronto e quindi visualizzare nella realtà ciò che è scritto nella nota, non si potrà negare la mancanza di incertezza e, quindi, l’operare della tutela ex art. 2652, comma 1, numero 6) c.c. Infatti, è sempre da ricordare che i Registri immobiliari dovrebbero esser letti alla luce del sistema immobiliare, nel senso che vanno combinati tutti i meccanismi di pubblicità (almeno fin quando il sistema di pubblicità immobiliare non dovesse cambiare), immobiliare e catastale, per l’identificazione dei beni.

Invece, ove i beni siano descritti senza una chiara limitazione spaziale (es., «con l’uso esclusivo del posto auto contraddistinto dal n. 6»), mi sembrerebbe difficile poter parlare di mancanza di incertezza, che nuoce alla validità (in parte qua) della trascrizione, con conseguente non-operabilità della tutela c.d. sanante;

- - quando, invece, i “diritto di uso esclusivo” riguardino porzioni autonomamente accatastate (es., «con l’uso esclusivo del BCNC contraddistinto dal subalterno 7 stessi particella e foglio»), e nella nota (nel corpo, per quelle ante meccanizzazione, ovvero nel quadro o sezione D, per le altre) siano indicati i dati catastali, non ci dovrebbero essere difficoltà a superare il problema dell’incertezza (che non sussiste) oggettiva, ai fini dell’art. 2665 c.c.

Come sopra detto, una volta acclarata la non-invalidità (anche) della trascrizione, e supponendo che il titolo sia nullo (anche parzialmente), potrà operare la tutela ex art. 2652, comma 1, numero 6) c.c. Dopodiché, potrà accedersi ad una delle tesi ricostruttive proposte dalla Suprema corte, ad eccezione – per quanto sopra detto – di quella del diritto di natura obbligatoria, non parendo situazione trascrivibile ex artt. 2643 o 2645 c.c. Infine, data una determinata natura a questa situazione giuridica, si dovrà capire se la stessa possa ritenersi passata o meno in capo al subacquirente.

 

[23] Tornano ancora utili le riflessioni che si facevano dal CNN, La legge 28 febbraio 1985, n. 47 – Criteri applicativi, 1° marzo 1987, in Banca Dati Notarile. Angelo Gallizia, relativamente al motivo per il quale la disciplina sulle menzioni ex L. 47/1985 non dovesse trovare applicazione per le fusioni (evidentemente, all’epoca non poteva ancora parlarsi per le scissioni, che sarebbero state introdotte solo sei anni dopo, col D. LGS. 22/1991): «[…] A sua volta la fusione ‑ che sicuramente comporta un mutamento nella titolarità per il subingresso della società risultante dalla fusione nei rapporti già facenti capo alle società incorporate ‑ determina tuttavia soltanto come effetto accessorio e riflesso la circolazione dei beni, che deve invece costituire l'elemento causale dell'atto negoziale, affinché lo stesso venga assoggettato alla disciplina della legge [enfasi dell’autore] […]».

 

[24] Non rileva qui la disciplina di cui all’art. 31, comma 4 L. 1150/1942 (per gli atti formati dal 1° settembre 1967 al 16 marzo 1985), giacché essa risulta ancora più circoscritta (nella disposizione ci si riferisce, infatti ai soli «atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale»).